Testo integrale:
TRIBUNALE ORDINARIO DI FIRENZE
SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La soc. LA proponeva opposizione avverso il D.I. n. ---/12 del GDP di Firenze con il quale la stessa era stata ordinata del pagamento di €756,00, oltre interessi e spese legali, in favore del Ce a titolo di pagamento di servizi di manutenzione di presidi antincendio.
A fondamento dell’opposizione la stessa allegava l’inadempimento del CE e lamentava di aver sofferto conseguenti danni; chiedeva, pertanto, la revoca del D.I. ed in via riconvenzionale la condanna di CE al risarcimento dei danni.
Si costituiva CE, contestando il fondamento dell’opposizione e della domanda riconvenzionale.
Con ordinanza riservata 2-12.11.2012 il GDP, rilevata la tardiva iscrizione a ruolo della causa di opposizione, dichiarava con ordinanza l’improcedibilità della stessa.
Avverso tale provvedimento, avente valore sostanziale di sentenza, ha proposto appello LA, chiedendone l’integrale riforma con accoglimento delle conclusioni già avanzate in primo grado.
Si è costituita CE, resistendo all’appello, di cui ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità, ovvero il rigetto.
Con provvedimento 4-5.5.2016, comunicato alle parti in pari data, l’ufficio ha disposto esperirsi procedimento di mediazione ai sensi dell’art. 5, II co., D. Lgs. n. 28/2010 e s.m.i., assegnando termine di gg 15 per la presentazione della relativa domanda ad Organismo abilitato.
All’odierna udienza le parti hanno dichiarato di non aver esperito la mediazione, ed è stata rilevata di ufficio l’improcedibilità dell’appello.
La causa è passata quindi in decisione a seguito di discussione orale ex artt.281 sexies e 352c.pc..
- la mediazione delegata – l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 5, IIco. D.Lgs. n. 28/2010 e ss.mm.ii.
L’invio delle parti in mediazione (c.d. mediazione delegata o disposta dal giudice) costituisce potere discrezionale dell’ufficio che può essere esercitato “valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti”, anche in fase di appello, sempreché non sia stata tenuta l’udienza di precisazione delle conclusioni. Ove la mediazione venga disposta, il suo esperimento “è condizione di procedibilità della domanda giudiziale” (art.5, II co. D.Lgs. citato). Ne segue che il mancato esperimento della mediazione vizia irrimediabilmente il processo, impedendo l’emanazione di sentenza di merito.
Tale disciplina, finalizzata a favorire la conciliazione della lite con l’intervento di soggetto terzo imparziale, non pone problemi di natura costituzionale né appare lesiva dei precetti di cui alla normativa sovranazionale sul diritto di azione e di accesso alla giustizia (Carta di Nizza, CEDU). Non vi è dubbio infatti che l’intento perseguito – deflazionamento del contenzioso con positivi effetti sotto il profilo della ragionevole durata del processo– giustifichi sotto il profilo razionale e costituzionale, da un lato, il potenziamento degli istituti di definizione delle controversie alternativi al processo, e, dall’altro, la sanzione prevista in caso di inottemperanza all’ordine giudiziale.
Ne segue, quindi, l’applicazione della sanzione della improcedibilità della “domanda giudiziale”, giusto il disposto della norma citata, laddove, come nel caso di specie, la mediazione non sia stata esperita. Sul punto è solo da aggiungere, così respingendosi l’odierno rilievo della difesa dell’appellante, che, trattandosi di mediazione demandata dal giudice ai sensi dell’art. 5, co. II del D. Lgs. citato, e non di mediazione obbligatoria ante causam, ai sensi del I comma della medesima disposizione, non è applicabile il meccanismo di sanatoria ivi previsto in caso di mancata eccezione o rilevazione della suddetta omissione entro la prima udienza di trattazione.
Il tutto senza considerare che, in effetti, l’odierna udienza è stata quella immediatamente successiva al maturare della causa di improcedibilità.
- L’oggetto della sanzione di improcedibilità in appello: la originaria domanda giudiziale attore ovvero l’appello?
Ciò posto, fermo restando che ai sensi dell’art. 5, co. II, citato, il mancato esperimento della mediazione delegata dal giudice, così come nel caso di mediazione ante causam, comporta la ”improcedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”, occorre chiedersi se la sanzione processuale in questione riguardi direttamente la domanda sostanziale, azionata dall’attrice in primo grado, secondo un’interpretazione senz’altro più lineare sotto il profilo letterale, ovvero l’impugnazione proposta. Va premesso che la mancata attivazione della mediazione disposta dal giudice, al di là della terminologia utilizzata dal Legislatore e dalla sanzione prevista (improcedibilità della domanda giudiziale, anche in appello), altro non è che una forma qualificata di inattività delle parti, per avere le stesse omesso di dare esecuzione all’ordine del giudice.
E’ noto che secondo la legge processuale l’inattività delle parti rispetto a specifici adempimenti comporta, di regola, l’estinzione del processo (si pensi, con riferimento alla disciplina generale del procedimento di primo grado, all’inosservanza all’ordine giudiziale di integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorte necessario, alla mancata rinnovazione della citazione, alla omessa riassunzione del processo, alla mancata comparizione delle parti a due udienze consecutive – artt. 102, 181, 307e 309c.p.c.). L’estinzione non produce peraltro particolari effetti sotto il profilo sostanziale, salvo che nelle more della pendenza del giudizio estinto non sia maturata qualche decadenza o prescrizione di natura sostanziale. Recita, infatti, l’art. 310, I co. c.p.c. che “l’estinzione del processo non estingue l’azione”. In buona sostanza, la parte, che vede “cadere” il processo a seguito di declaratoria di estinzione, ben potrà avviare una nuova iniziativa processuale, riproponendo la medesima domanda di merito. Tale regola, però, non vale in caso di giudizio di appello. Invero, ai sensi dell’art. 338 c.p.c. “l’estinzione del giudizio di appello… fa passare in giudicato la sentenza impugnata…”. Si pensi, ancora, alla sanzione processuale dell’improcedibilità dell’appello prevista in caso di tardiva costituzione in giudizio dell’appellante (art. 348,I co. c.p.c.). E’ pacifico che anche in tal caso la sentenza di primo grado passa in giudicato (salvo l’esperimento del ricorso per Cassazione avverso la sentenza di appello). Analogo esempio è costituito dalla sanzione dell’inammissibilità dell’impugnazione, ove la stessa sia proposta dopo la scadenza dei termini perentori di cui agli artt. 325 e327c.p.c. Tale disciplina risponde all’elementare esigenza di porre a carico della parte appellante, che si avvale dei rimedi previsti dall’Ordinamento per evitare il consolidarsi di provvedimento giudiziale idoneo al giudicato e per ottenerne la riforma, l’onere di proporre e coltivare ritualmente il procedimento di gravame, ponendo in essere ritualmente tutti gli atti di impulso e gli incombenti necessari. In sostanza la disciplina codicistica del procedimento di appello evidenzia chiaramente che l’unico soggetto onerato ad attivare e “coltivare” il gravame affinché lo stesso addivenga al suo esito fisiologico è la parte appellante. Solo questa deve porre in essere quegli adempimenti che la legge riconosce indispensabili per la ammissibilità e procedibilità dell’impugnazione. In difetto, l’impugnazione è viziata in rito e la sentenza impugnata passa ingiudicato. Alla luce di quanto sopra, si ritiene che l’interpretazione delle disposizioni di cui al D. Lgs. N. 28/10 e s.m.i. in materia di conseguenze dell’omessa mediazione non possa prescindere dalla particolare natura dei giudizi cui essa si riferisce. Tale approccio metodologico è stato già affermato da questo giudice nella sentenza 30.10.2014, reperibile agevolmente su internet, nella per larga parte analoga materia dell’opposizione a D.I., con soluzione che è stata condivisa da numerose pronunce di merito, e dalla stessa S.C. con la sentenza n. 24629/15 del 7.10-3.12.2015, sia pure, in forza di percorso interpretativo parzialmente diverso.
Deve pertanto ritenersi che nei procedimenti di appello, così come nell’opposizione a D.I. in primo grado, la locuzione “improcedibilità della domanda giudiziale” debba interpretarsi alla stregua di improcedibilità/estinzione dell’impugnazione (o dell’opposizione nel procedimento ex art. 645 c.p.c.) e non come improcedibilità della originaria domanda sostanziale attorea (ovvero della domanda di condanna di cui all’originario ricorso monitorio). E ciò per le evidenziate ragioni sistematiche che, diversamente, porterebbero ad interpretare l’art. 5, II co. D. Lgs. citato, in modo incoerente e dissonante con il sistema processuale. La correttezza di tale soluzione ermeneutica è confermata dagli effetti “abnormi” che si avrebbero adottando la diversa interpretazione. Quanto sopra vale, non solo, quando appellante è l’originario attore in primo grado, ovvero nell’opposizione a decreto ingiuntivo il creditore opposto, attore in senso sostanziale, ma anche nel caso contrario, quando cioè la parte che appella sia il convenuto del giudizio di prime cure, ovvero l’opponente nel giudizio ex art. 645 c.p.c. (convenuto sostanziale), come nella fattispecie. Nel primo caso sarebbe evidente l’irrazionalità della diversa soluzione che, individuando l’oggetto dell’improcedibilità nell’originaria domanda sostanziale proposta, avrebbe come effetto quello, in caso di omesso esperimento della mediazione, di porre nel nulla una sentenza sfavorevole allo stesso appellante (originario attore) per una omissione imputabile al medesimo. Il tutto con l’innegabile vantaggio di poter riproporre la medesima domanda sostanziale in nuovo giudizio di primo grado, con, di fatto, “riapertura” dei termini decadenziali assertivi e probatori e conseguimento di nuove ed ulteriori chanches di ottenere una pronuncia di merito favorevole. In caso invece di sentenza favorevole all’originario attore, e quindi appellata dal convenuto in primo grado, si verrebbe poi a porre a carico del primo, parte appellata, oneri del tutto contrastanti con i principi generali del processo di appello (artt. 338, 348, Ico. c.p.c.). In sostanza l’appellato, titolare della pretesa sostanziale fatta valere in giudizio, sarebbe onerato di esperire la mediazione al fine di conservare l’efficacia della sentenza di primo grado ad egli, in ipotesi, favorevole, che altrimenti essa sarebbe travolta. In altre parole si porrebbe a carico dell’appellato l’onere di contribuire a far giungere il processo di impugnazione al suo esito fisiologico, e cioè alla rivalutazione della decisione di prime cure, attività rispetto alla quale il medesimo non ha certo interesse. Si verrebbe così a configurare, come è stato evidenziato in dottrina, una singolare “improcedibilità postuma” che dovrebbe colpire un provvedimento giudiziario idoneo al giudicato sostanziale, la sentenza di primo grado, già definitivamente emessa, ancorché sub judice. Si tratterebbe, in sostanza, di sanzione processuale che non avrebbe uguali nell’ordinamento processuale. Che tale totale sovvertimento dei principi generali del processo possa dirsi compiuto a mezzo della novellazione di una legge speciale (DL n. 69/13, conv. nella L. 98/13, con cui è stato modificato l’art. 5 del D. Lgs. n. 28/2010, in materia di strumenti alternativi di risoluzione delle controversie) appare, in effetti, incredibile. Ciò costituisce indice sicuro dell’erroneità della mera interpretazione letterale di tale disposizione.
In conclusione, va quindi affermato che, nel caso di mediazione disposta nel giudizio di appello ai sensi dell’art. 5, II co. D. lgs.n.28/2010, come novellato dal D.L. n. 69/13, conv. nella L. 98/13, e così come nella affine materia del giudizio di primo grado nella opposizione a decreto ingiuntivo, la locuzione “improcedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”, non può che intendersi nel senso di improcedibilità dell’appello, ovvero dell’opposizione a D.I., con le indicate conseguenze di legge.
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Va pertanto dichiarata l’improcedibilità dell’appello proposto da LA.
Resta assorbita ogni altra questione.
Considerata la complessità e novità della questione e la circostanza che la stessa è stata rilevata di ufficio, si impone la integrale compensazione delle spese del grado.
- Il pagamento di ulteriore contributo unificato
L’Art. 13, comma I quater, del D.P.R. n. 115/2002, introdotto dall’art. 1 comma 17 della L. n. 228/2012 prevede che “Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis.
Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso». L’Art. 1 comma 18 recita poi che tale disposizione si applica “ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della presente legge”. Poiché la legge è entrata in vigore il 1.1.2013, ne segue che la suddetta disposizione trova applicazione per i “procedimenti” iniziati dopo il 31.1.2013, come nella fattispecie (la notifica dell’atto di appello è dell’8.5.2013).
P.Q.M.
Visti gli artt. 281 sexies e 352c.p.c.
Il Tribunale di Firenze, III sezione civile in composizione monocratica, definitivamente decidendo, ogni altra istanza respinta:
- DICHIARA l’improcedibilità dell’appello;
- COMPENSA le spese del grado;
- DICHIARA la sussistenza dei presupposti per porre a carico di LA ed in favore dell’Erario il pagamento di ulteriore somma pari a quella dovuta a titolo di contributo unificato per l’impugnazione;
- MANDA alla Cancelleria per quanto di competenza.
Il Giudice dott. Alessandro Ghelardi