L'obbligo di riservatezza in mediazione e le dichiarazioni delle parti

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L’effettiva osservanza del dovere di riservatezza in mediazione può essere inserita, a pieno titolo, nel novero delle questioni più controverse, essendo tale obbligo disciplinato da una normativa che ancora oggi pone, a distanza di oltre dieci anni dalla sua entrata in vigore, evidenti incertezze interpretative; accade, infatti, che i mediatori manifestino, talvolta, concreti e seri dubbi in merito alla gestione delle dichiarazioni rese dalle parti durante la procedura di mediazione, e ciò malgrado la giurisprudenza di merito sia intervenuta, in più occasioni, per cercare di delineare l’esatto perimetro di tale principio.

A cura della Redazione 101Mediatori. Letto 18448 volte dal 03/03/2021


IL DOVERE DI RISERVATEZZA E L’INUTILIZZABILITÀ DELLE DICHIARAZIONI
 
L’efficacia, il corretto funzionamento e il buon esito della mediazione è garantita anche mediante la rigorosa osservanza del principio di riservatezza, disciplinato dagli artt. 9 e 10 del D. Lgs n. 28/2010, la cui inderogabilità era stata peraltro sancita dal legislatore comunitario con. art. 7 Direttiva - CE 2008/52.
 
È chiaro come, in concreto, l’obbligo di riservatezza trovi la sua ragione d’essere nella necessità di favorire quanto più possibile l’instaurazione fra le parti, presenti in mediazione, di un clima libero e disteso, di sincero confronto, tanto nelle sessioni congiunte quanto in quelle separate, in modo tale da consentire ad ognuna di esse di aprirsi senza timori, potendo esprimere, fino in fondo il proprio punto di vista, con le relative aspettative e richieste.
 
Un principio che, dunque, riveste portata decisiva, poiché ha di fatto consentito al legislatore di incentivare l’uso della mediazione, nonché di agevolare l’operato del mediatore nella ricerca di un accordo in grado di soddisfare i contrapposti i interessi.
 
Passando all’esame del quadro normativo di riferimento, occorre muovere dalla disamina dell’articolo 9, rubricato “dovere di riservatezza”, che al primo comma statuisce: “Chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell’organismo o comunque nell’ambito del procedimento di mediazione è tenuto all’obbligo di riservatezza rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento medesimo”.
Dalla lettura di siffatta norma emerge, in primo luogo, come l’obbligo di riservatezza abbia ad oggetto le dichiarazioni proferite dalle parti e le varie informazioni eventualmente acquisite nel corso della mediazione. Sul piano soggettivo, invece, viene in rilievo come tenuti alla riservatezza siano tutti coloro che, a vario titolo, intervengono nel procedimento di mediazione, siano essi parti, legali, mediatore, co-mediatori, tirocinanti e altri funzionari dell’organismo di mediazione.
 
Il disposto appena esaminato deve essere letta di concerto con il successivo articolo 10, rubricato “inutilizzabilità e segreto professionale”, il quale al primo comma dispone: “Le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l'insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio”.
 
La lettura congiunta di tali norme è necessaria poiché esse disciplinano quella che gli addetti ai lavori definiscono come riservatezza esterna (o esoprocedimentale), ciò in quanto, l’obbligo di riserbo attiene non soltanto all’attività svolta durante la procedura di mediazione, ma, come noto, permane e si proietta anche in sede giudiziale nel caso in cui il tentativo di conciliazione risultasse negativo; tale forma si distingue da altra tipologia denominata riservatezza interna (o endoprocedimentale) prevista dal comma II del succitato art. 9, a mente del quale: “ Rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite nel corso delle sessioni separate e salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni, il mediatore è altresì tenuto alla riservatezza nei confronti delle altre parti”.
È evidente, dunque, come la norma da ultimo richiamata alluda espressamente alle c.d. sessioni separate, quale attività regolarmente praticata dai mediatori tanto nel corso della vera e propria fase negoziale al fine di sostenere e assistere le parti nella ricerca di un’intesa, quanto per tentare, prima ancora, di superare le incertezze e le ritrosie manifestate delle parti in merito all’entrata in mediazione.  Preme a tal riguardo rimarcare l’importanza degli incontri separati, i quali assumono spesso portata decisiva ai fini della buona riuscita della mediazione, atteso che in tali frangenti le parti hanno la possibilità di affrontare con il mediatore, in un ambiente riservato e coperto dall’obbligo di riservatezza, temi e profili della controversia che intendono celare alla propria controparte.
 
Cionondimeno, è bene sul punto rammentare come la normativa in oggetto sia stata introdotta dal legislatore allo scopo precipuo di tutelare la posizione delle parti in mediazione, alle quali è quindi accordata la possibilità di derogare al dovere di riservatezza, costituendo l’esercizio di detta facoltà chiara espressione del principio di autonomia negoziale.
Ed invero, il surrichiamato II co. dell’art. 9 prevede espressamente che la parte, nell’ipotesi di “sessioni separate”, possa autorizzare il mediatore a comunicare all’altra il contenuto delle dichiarazioni e delle informazioni fornite e nei limiti di quanto autorizzato.
Allo stesso modo, l’art. 10 testé riportato stabilisce espressamente che nel caso d’insuccesso della mediazione, nel successivo “giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito” le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non potranno essere divulgate salvo che non intervenga il consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni.
 
LE DICHIARAZIONI ATTINENTI ALLA PARTECIPAZIONE AL PROCEDIMENTO DI MEDIAZIONE E QUELLE RELATIVE AL MERITO DELLA QUESTIONE
 
Dopo aver brevemente analizzato i disposti che prevedono e disciplinano il dovere di riservatezza, quali norme applicabili tanto allo schema della mediazione obbligatoria di cui all’art. 5, comma 1 bis, d. lgs. 28/2010, quanto a quello della mediazione demandata,  prevista ai commi 2 e 2 bis dell’art. 5, occorre a questo punto comprendere in che modo i mediatori debbano porsi rispetto alle dichiarazioni rese (e all’informazioni acquisite) dalle parti nelle diverse fasi che scandiscono il procedimento di mediazione.
 
Per rispondere a tale quesito occorrerà preliminarmente stabilire se l’obbligo di riservatezza innanzi descritto debba essere inteso in termini assoluti ed esclusivi oppure se sia necessario contemperare l’interesse alla riservatezza con altri interessi, di eguale importanza e grado, che il legislatore intende perseguire mediante l’istituto della mediazione.
È ovvio, infatti, che se si assumesse come prevalente il dovere di riservatezza, al mediatore sarebbe preclusa la possibilità di verbalizzare qualsivoglia dichiarazione proferita dalle parti nel corso del procedimento di conciliazione, ovviamente, salva eventuale deroga prestata dalla parti.
 
Al fine di inquadrare meglio la questione che ci occupa occorre, anzitutto, muovere dalla lettura del  disposto di cui al comma IV bis, dell’art. 8 D. Lgs 28/2010, introdotto dal D.L. 69/2013 (conv. nella L. 98/2013), ai sensi del quale: “Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall'articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio”.
La norma da ultimo menzionata consente, a ben vedere, di ravvisare un altro principio cardine cui è improntato il procedimento di mediazione rappresentato dall’interesse all’effettivo svolgimento della mediazione; principio, questo, strettamente connesso alla finalità deflattiva del contenzioso, che a sua volta costituisce lo scopo primario che il legislatore intende perseguire mediante l’istituto della mediazione.
Ne discende pertanto la necessità di interpretare il quadro normativo di riferimento innanzi tratteggiato cercando di contemperare gli interessi perseguiti dal legislatore, vale a dire: il dovere di riservatezza, da un lato, e gli interessi ad una mediazione effettiva, nonché all’economicità e all’utilità dell’attività svolta durante la conciliazione, dall’altro.
 
A tal riguardo, giova richiamare l’interessante pronuncia emessa dal Tribunale di Roma (Dott. Massimo Moriconi), in data 25.1.2016, con cui il giudice romano ha puntualizzato come: “il principio relativo alla riservatezza delle dichiarazioni delle parti deve essere riferito al solo contenuto sostanziale dell'incontro di mediazione, VALE A DIRE AL MERITO DELLA LITE”.
Ogni qualvolta, invece, tali dichiarazioni, quand'anche trasposte al di fuori del procedimento di mediazione, riguardano circostanze che attengono alle modalità della partecipazione delle parti alla mediazione e allo svolgimento (in senso procedimentale) della stessa, VA PREDICATA LA ASSOLUTA LICEITÀ DELLA VERBALIZZAZIONE e dell'utilizzo da parte di chicchessia”.
Ed invero, in tale ambito una compiuta verbalizzazione è necessaria al fine di consentire al giudice la conoscenza del contenuto della condotta delle parti nello specifico contesto di cui trattasi; conoscenza indispensabile in relazione alle previsioni del D. Lgs. n. 28/2010 relative alla procedibilità delle domande ed all'art. 8 co. 4 bis dello stesso decreto, nonché, in via generale, dell'art. 96 III° c.p.c .
Sarebbe infatti un'assoluta aporiaprosegue il giudice romano -  prevedere da una parte che il giudice debba e possa sanzionare la mancata o irrituale partecipazione delle parti al procedimento di mediazione e per contro precludergli la conoscenza e la valutazione degli elementi fattuali che tale ritualità o meno integrano. “Per la medesima ragione, deve essere verbalizzata dal mediatore la risposta di ciascuna delle parti interpellate alla fatidica domanda (del mediatore) sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione (art. 8 co. I° quinto periodo decr.lgsl.28/2010).
A tale proposito… è necessario e doveroso che venga verbalizzata la ragione del rifiuto a proseguire nella mediazione vera e propria. “CIÒ, SEMPRE CHE LA PARTE DICHIARANTE LA ESPONGA E CHIEDA LA RELATIVA VERBALIZZAZIONE”. E se, di sicuro, il mediatore non è tenuto a richiedere ad essa la ragione di tale rifiuto, neppure può esimersi dalla relativa verbalizzazione, ove richiesta dall'avente diritto”. “Ed invero ogni parte può esonerare il mediatore dall'obbligo di riservatezza relativamente alle sue dichiarazioni (cfr. art. 9)”.
il Tribunale di Roma ha poi evidenziato: “…. il mediatore deve trascrivere ogni circostanza - quand'anche consistente in dichiarazioni delle parti - utile a consentire (al giudice) le valutazioni di competenza, altrimenti impossibili, attinenti alla partecipazione (o meno) delle parti al procedimento di mediazione ed allo svolgimento dello stesso, come pure le circostanze che attengono al primo incontro informativo. In relazione al quale la parte che rifiuta di proseguire può esporne la ragione chiedendo che venga trascritta, con il correlativo obbligo del mediatore di verbalizzarla.
 
 
Il giudice romano ha, infine, precisato che: “Il mediatore non è né un collaboratore del giudice né un suo ausiliario, ma lo schema della legge prevede, in sommo grado nella mediazione demandata, una serie di link che non possono essere ignorati fra il procedimento di mediazione e la causa”.
 
Nel solco tracciato dal Tribunale di Roma  si è poi inserito il Tribunale di Pavia (nella persona del dott. Giorgio Marzocchi) con l’ordinanza del 26.9.2016, con cui ha rilevato che“… nella prassi non sempre il primo incontro ha un contenuto limitato all’informativa alle parti, ma accade che lo svolgimento del primo incontro abbia uno sviluppo del tutto simile ad una mediazione vera e propria, con esposizione di posizioni negoziali, incontri separati e ricerca di una composizione amichevole del conflitto”. Il Tribunale di Pavia, aderendo all’interpretazione resa dal giudice romano, sottolinea altresì che “Diventa in tal caso necessario che il mediatore non si limiti a verbalizzare quali soggetti sono presenti e con quali poteri – il che è doveroso sempre - ma verbalizzi anche quale parte dichiari di non voler o poter proseguire la mediazione e quali siano gli ostacoli oggettivi che impediscono la prosecuzione della mediazione”.Sarà pertanto necessario che il mediatore con la sua verbalizzazione consenta di comprendere quale mediazione ha svolto nel primo incontro. Solo in questo modo il magistrato sarà messo in condizione di valutare se la condizione di procedibilità si è avverata e adottare le conseguenti determinazioni processuali”.
 
Ne deriva, pertanto, come secondo il maggioritario orientamento giurisprudenziale sopra riportato l’obbligo di riservatezza in mediazione coprirebbe soltanto il merito della lite e non anche gli atti concernenti lo svolgimento del procedimento, con la conseguenza che, a titolo di esempio, il rifiuto di proseguire nella mediazione dovrà essere opportunamente verbalizzato dal mediatore, affinché il giudice possa trarne le valutazioni del caso ai sensi dell’art. 8, comma 4bis, d.lgs. n. 28 del 2010 e di modo che il giudice possa desumere argomenti di prova.
 
Valga inoltre rilevare come ad analogo risultato si giungerebbe sulla scorta un’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative in commento. Ed invero, ai sensi del primo comma dell’art. 8, il primo incontro durante il quale “il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione … e invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione” deve essere considerato come momento non ancora inserito nella svolgimento vero e proprio dell’attività di mediazione così come definita dall’art. 1, comma 1, lettera a), e ciò anche alla luce di quanto statuito dall’art. 17, comma V ter, D. Lgs. 28/10, secondo cui: “Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.
Considerato, infine, che gli artt. 9 e 10 - come più volte rimarcato - statuiscono espressamente che l’obbligo di riservatezza operi: “rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento medesimo” (cfr. art. 9) ovvero nel corso del procedimento di mediazione”(cfr. art. 10); ne consegue come tali articoli disciplinanti il dovere di riservatezza non potrebbero trovare applicazione rispetto a tutte quelle esternazioni rese dai partecipanti durante il primo incontro (anche se quest’ultimo, come spesso accade, fosse costituto da più incontri), poiché appunto proferite in una fase in cui la mediazione si considera non ancora iniziata.
 
Orbene, ritornando alla questione che ci occupa, non violerebbe l’obbligo di riservatezza il mediatore che si limita alla verbalizzazione delle dichiarazioni rese dalle parti e/o dai rispettivi avvocati prima che gli stessi abbiano espresso la volontà di entrare in mediazione. Se invece le dichiarazioni fossero riferite in un momento successivo e, dunque, attenessero al merito della controversia, non sembrerebbero esserci dubbi di sorta circa la piena applicabilità dei ridetti artt. 9 e 10. 
È chiaro, inoltre, che il mediatore, nel prendere atto del predetto filone giurisprudenziale, debba soprattutto valutare le varie peculiarità che connotano il caso concreto, giacché non è raro incappare in mediazioni in cui già a partire dal primo incontro le parti pongano in essere una vera e propria attività negoziale.
 
Si pongono in linea con quanto fin qui esposto anche i disposti contenuti all’art. 11, rubricato: conciliazione, il quale prevede che, nell’ipotesi di mancato accordo, il mediatore possa valutare l’opportunità, anche su richiesta delle parti, di formulare per iscritto una proposta di conciliazione e “le parti fanno pervenire al mediatore, per iscritto ed entro sette giorni, l’accettazione o il rifiuto della proposta”; precisando al comma II, “Salvo diverso accordo delle parti, la proposta non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento”, la norma conferma quindi come la principale funzione dell’obbligo di riservatezza sia quella di salvaguardare le potenzialità conciliative delle mediazione, ma sempre nel rispetto dell’autonomia negoziale delle parti, le quali hanno sempre il potere di decidere se derogare o meno a tale dovere.
 
Infine, rimanendo in tema di proposte di conciliazione formulate in sede di mediazione, preme analizzare in concreto una particolare situazione, assai ricorrente nell’ambito delle mediazioni che si concludono con un mancato accordo, la cui gestione desta non poche incertezze ai mediatori.
In particolare, si fa riferimento all’ipotesi in cui una delle parti richieda al mediatore di riportare a verbale la proposta transattiva formulata e non ritenuta congrua dall’altra parte, la quale si oppone alla verbalizzazione della stessa
In primo luogo, preme evidenziare che da un punto di vista normativo, nessun disposto di cui al D.Lgs. 28/10 prevede espressamente un’ipotesi di questo tipo. 
In ogni caso, alla luce dell’orientamento maggioritario testé riportato, la proposta di conciliazione non potrebbe essere verbalizzata dal mediatore, poiché appunto afferente al merito della questione e, in quanto tale, risulta coperta dall’obbligo di riservatezza, a meno che tale obbligo  non venga derogato dalle parti.
Sennonché, a parere dello scrivente, al fine di esonerare il mediatore dal vincolo di riserbo non sarebbe sufficiente il consenso della sola parte dichiarante cosi come disposto dall’art. 10, e ciò in quanto tale norma si inserisce, evidentemente, in un contesto giudiziale a cui la parti accedono in seguito all’insuccesso di una mediazione. Inoltre, a sostegno di tale assunto depone il surrichiamato art. 11, comma 2, concernente appunto la proposta di conciliazione formulata dal mediatore, che dispone espressamente: “salvo diverso ACCORDO DELLE PARTI la proposta non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento” .
Pertanto, ritenuto quanto sopra, in assenza di chiare indicazioni normative e giurisprudenziali, ai fini della verbalizzazione della proposta di conciliazione si reputa sempre necessario il consenso di tutte le parti coinvolte. In altre parole, è opportuno che siano le parti, di comune accordo, ad esonerare il mediatore dal vincolo di riserbo e consentirgli, dunque, di riportare a verbale la proposta di conciliazione presentata da una di esse e ritenuta dall’altra non satisfattiva. Il mediatore, seguendo una linea garantista, dovrà accertarsi che la decisione sia, da ambo i lati, consapevole, rammentando ai partecipanti che tale proposta potrà essere utilizzata nel futuro giudizio.
 
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
 
In considerazione di quanto sopra, il mediatore sarebbe dunque chiamato a trascrivere ogni circostanza – comprese le dichiarazioni delle parti - utile a consentire al giudice quelle valutazioni che attengono al primo incontro informativo, che altrimenti sarebbe impossibile compiere.
Pertanto, qualora la parte abbia scelto di non proseguire nel tentativo conciliazione senza però addurre alcuna ragione o ponendo a fondamento della sua determinazione motivazioni inconsistenti, il rifiuto s’intenderà come ingiustificato e il mediatore preciserà nel verbale come la parte non abbia voluto fornire valide giustificazioni al proprio dissenso.
 
Appare dunque di palmare evidenza come il verbale stilato dal mediatore assuma portata fondamentale affinché il giudicante possa avere piena e precisa contezza circa l’atteggiamento serbato dalle parti che hanno espresso la volontà di non entrare in mediazione e decidere, dunque, se comminare le sanzioni di cui al più volte citato comma 4 bis, art. 8.
 
Pur tuttavia – come già accennato - molto spesso accade che la linea di confine tra ciò che concerne il mero svolgimento del procedimento e le c.d. ragioni nel merito che possono indurre una parte a rigettare una proposta è molto sottile e talvolta impercettibile. In tal caso, sarà premura del mediatore cercare di individuare, insieme alle parti, e con l’ausilio dei rispetti legali, gli ostacoli che impediscono l’inizio della procedura.
 
In conclusione, pur apprezzando il costante contributo apportato dalla giurisprudenza di merito che a più riprese ha cercato di definire i confini dell’obbligo di riservatezza, ciò che realmente si auspica nel prossimo futuro è un intervento chiarificatore da parte dell’organo legislativo, che possa finalmente fugare i suindicati dubbi interpretativi, i quali finiscono per riverberarsi sulla già complessa attività espletata dai mediatori, compromettendo inevitabilmente l’efficacia dell’istituto della mediazione.

Avv Simone Pino
Redazione 101Mediatori

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Chi è l'autore
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La Redazione di 101Mediatori è composta da mediatori, avvocati e studiosi della materia, particolarmente attenti alle novità normative sulla mediazione.





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