Domanda riconvenzionale e necessità di rinnovo della mediazione

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Se la mediazione obbligatoria si conclude con esito negativo occorre esperire un nuovo tentativo se il convenuto, nel costituirsi in giudizio, propone una domanda riconvenzionale non introdotta in sede di mediazione? Vedremo in che modo giurisprudenza e dottrina hanno affrontato, nel corso degli anni, tale controversa questione

A cura del Mediatore Avv. Micaela Sedea da Padova. Letto 10801 volte dal 09/05/2021


Come noto chiunque sia parte di una controversia civile vertente su diritti disponibili può liberamente provare a risolvere la lite tramite l’istituto della mediazione ma, per alcune specifiche controversie, l’utilizzo della mediazione è imposto dalla legge (c.d. mediazione obbligatoria).
Si tratta delle controversie vertenti nelle materie originariamente elencate dall’art. 5, comma 1 d.lgs. n. 28 del 2010, ed oggi, in seguito alla riforma del 2013 (d.l. n. 69 del 2010, conv., con mod., in l. n. 98 del 2013), elencate dal comma 1-bis del medesimo art. 5 a cui, a causa della pandemia legata al Covid, si è ulteriormente aggiunta l’ipotesi di cui all’art. 6 ter del d.l. 6/2020. 
Uno dei dubbi che ci si può trovare a dover affrontare in caso di mediazione obbligatoria ex lege è se, esperita la mediazione con esito negativo, si debba, o meno, tornare in mediazione qualora il convenuto, nel costituirsi, proponga una domanda riconvenzionale non introdotta in sede di mediazione.
La questione non è di poco conto se si considera che nelle controversie in questione il procedimento di mediazione costituisce condizione di procedibilità della successiva eventuale domanda giudiziale.
Il d. lgs. 28/2010 si è limitato, infatti, a prevedere la necessità, per il soggetto che intende esercitare in giudizio un’azione, di attivare la mediazione nelle materie ove è obbligatoria ex lege ed un’interpretazione letterale della disposizione potrebbe indurre a ritenere che sussista l’obbligo della rinnovazione del tentativo a fronte della proposizione in giudizio di domanda riconvenzionale.
L’omessa disciplina normativa sul punto ha dato adito a diverse opposte interpretazioni. 
1) Secondo una prima opinione la mediazione obbligatoria non si estende alle domande riconvenzionali sollevate dal convenuto o proposte da eventuali terzi intervenuti perché:
a) le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità sono di stretta interpretazione, poiché introducono limitazioni all’esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall’art. 24 Cost., quindi la locuzione “chi intende esercitare in giudizio un’azione“, contenuta nel comma 1, art. 5, d.lgs. n. 28/2010, sarebbe da intendersi come “chi intende instaurare un giudizio” e, quindi, solo l’attore;
b) vanno fatti salvi i principi di ragionevole durata del processo e di equilibrata relazione tra procedimento giudiziario e mediazione, indicato nella direttiva comunitaria 2008/52/CEE; 
c) il procedimento di mediazione sulla domanda riconvenzionale non è generalmente idoneo, dopo il fallimento del procedimento di mediazione sulla domanda principale, a porre fine al giudizio;
d) l’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010, prevede la facoltà del convenuto di eccepire il mancato tentativo di mediazione, e va considerato tale “chi viene citato in giudizio”, e non già “chi, avendo promosso un’azione risulti a sua volta destinatario di una domanda, collegata a quella originaria”;
e) non è possibile ammettere che vengano formulate domande riconvenzionali al solo fine di costringere il giudice a mandare le parti in mediazione, così da dilazionare i tempi del processo.
2) Secondo un opposto orientamento giurisprudenziale, invece, si ritiene che ogni domanda proposta in giudizio - non solo la domanda introduttiva ma anche quelle successive – se avente ad oggetto una delle materie di cui all’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28/2010, è soggetta alla condizione di procedibilità ivi prevista, perché:
a) nella normativa sulla mediazione il legislatore non precisa se l’esperimento del procedimento di mediazione costituisca condizione di procedibilità della sola domanda introduttiva del giudizio ovvero di tutte le domande giudiziali, anche se proposte in corso di causa (F. Luiso, in Diritto Processuale Civile, Volume V, La Risoluzione non Giurisdizionale delle Controversie). L’interpretazione letterale dell’art. 5, d.lgs. n. 28/2010 non consente di distinguere tra domande principali e domande successive e, quindi, anche per le seconde vige la condizione di procedibilità; 
b) la Corte di cassazione (v. Cass. 18 gennaio 2006, n. 830) nell’interpretare una norma analoga all’art. 5, comma 1, in materia di controversie agrarie, ha affermato che l’onere dell’esperimento del tentativo di conciliazione sussiste anche nei confronti del convenuto che proponga una riconvenzionale secondo i criteri di collegamento dell’art. 36 c.p.c., escludendo l’obbligatorietà del tentativo solo quando le parti del giudizio coincidono con quelle del tentativo obbligatorio di conciliazione e quando la formulazione della domanda riconvenzionale non comporti nessun ampliamento della materia del contendere; 
c) il termine “convenuto” usato dall’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28/2010, per indicare il soggetto che eccepisce l’improcedibilità della domanda, ben può essere riferito all’attore rispetto alla domanda riconvenzionale (v. ordinanza Tribunale di Verona, sez. III civile, 12/05/2016);
d) l’esclusione delle domande successive a quella introduttiva del giudizio dall’ambito di applicazione dell’art. 5, comma 1-bis, provocherebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra le parti processuali.
3) A questi due opposti orientamenti se ne affianca un terzo, che tiene conto non solo della funzione della domanda giudiziale, ma soprattutto dello scopo della mediazione.
La mediazione, infatti, è sicuramente uno strumento utile alla risoluzione delle controversie, che offre alle parti in lite la possibilità di raggiungere un accordo senza dover ricorrere alla giustizia ordinaria, ma ha anche funzioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle di mera economia processuale.
La mediazione è un mezzo di risoluzione negoziale delle controversie nel quale risulta fondamentale avere riguardo ai bisogni ed agli interessi sottesi ai diritti fatti valere in giudizio
Secondo questo orientamento bisognerebbe adottare un orientamento “temperato”, una via mediana rispetto alle due opposte sopra analizzate, attraverso la quale si possa ottenere un bilanciamento tra esigenze di ragionevole durata del processo ed efficacia della mediazione.
Non si può, quindi, limitarsi a considerare la componente oggettiva della mediazione, dovendosi invece considerare anche la componente soggettiva, ovvero i bisogni concreti delle parti che sono determinanti per le sorti del tentativo di conciliazione.
Secondo questa terza tesi, quindi, non è necessario rinnovare il tentativo di mediazione qualora la domanda riconvenzionale proposta lasci invariati gli elementi soggettivi del processo. In tal caso, infatti, gli interessi ed i bisogni sottesi delle parti, restando invariate esse stesse, rimangono inalterati e, quindi, se non si è raggiunto un accordo nel tentativo preventivo di mediazione, difficilmente questo potrà essere raggiunto in un tentativo successivo all’instaurazione del processo, producendo un’ingiustificata dilazione dei tempi processuali. 
Unica possibile eccezione, in caso d’identità dei soggetti, viene individuata nel caso in cui il fatto costitutivo della domanda riconvenzionale sia sorto successivamente all’esperimento del procedimento di mediazione (G. Battaglia La nuova mediazione “obbligatoria” e il processo oggettivamente e soggettivamente complesso, in Riv. Dir. Proc. 2011). Solo in quest’ipotesi, infatti, la riconvenzionale c.d. inedita essendo relativa ad un fatto costitutivo sorto posteriormente al primo tentativo di conciliazione, potrebbe produrre una variazione degli interessi in gioco tale da ammettere la possibilità che le parti arrivino a risolvere stragiudizialmente la loro controversia.
Diversa, invece, è l’ipotesi in cui la domanda successiva avente ad oggetto le materie indicate dall’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 28/2010, incida sulla struttura soggettiva, determinando un aumento delle parti del processo (ad es. a seguito di chiamata in causa, intervento volontario, litisconsorzio). In questi casi, essendoci parti ulteriori rispetto a quelle che hanno partecipato alla mediazione, portatrici d’interessi diversi e bisogni ulteriori rispetto a quelle originarie, potrebbe succedere che se tali interessi o bisogni sono compatibili con quelli delle altre parti, si potrebbe giungere al buon esito del tentativo di mediazione ed alla risoluzione negoziale della controversia. 
Nei casi di intervento o chiamata di terzo, potrebbe pensarsi allora alla possibilità di ricorrere alla mediazione delegata, prevista dal comma 2, dell’art. 5, d.lgs. n. 28/2010, il quale prevede che “Fermo quanto previsto dal comma 1 bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede d’appello.”
Si pone allora un’ulteriore domanda. Ma il giudice, in questi casi, deve sempre disporre la mediazione delegata o la decisione dev’essere frutto di una sua valutazione caso per caso?
i) Una prima soluzione potrebbe essere quella di ritenere che ogni qual volta vi è l’entrata del terzo sulla scena processuale, sarebbe auspicabile che il giudice valuti l’opportunità o meno di mandare le parti in mediazione, “fiutando” le possibilità di successo della stessa o formulando una valutazione di “mediabilità” del conflitto. Del resto, sta proprio in questo l’attività valutativa richiesta dal legislatore del d.lgs. n. 28/2010 al giudice, il quale dovrà capire se, in seguito alla chiamata o l’intervento del terzo, entrando in gioco nuovi diritti sostanziali, quindi nuovi interessi e bisogni, sia conveniente o meno, ragionando in un’ottica di bilanciamento tra economia processuale e mediazione, disporre un ulteriore tentativo di conciliazione.
Non si può, però, non tenere in considerazione il fatto che il giudice conosce i diritti sostanziali fatti valere dalle parti, mentre gli interessi ed i bisogni concreti di queste non sono nella sua disponibilità, con la conseguenza che la valutazione sulle possibilità di successo del tentativo di conciliazione potrebbe dirsi “incompleta”. Come dice il prof. Francesco Luiso, infatti, “Il mediatore certamente non deve essere digiuno di cognizioni giuridiche: ma è un grave errore ritenere che sia sufficiente essere un buon tecnico del diritto per poter essere un buon mediatore […] Il diritto si limita a disegnare i confini esterni del campo di gioco, ma non dà gli strumenti per vincere la partita: fuor di metafora, per metter d’accordo le parti. L’arbitro ed il giudice risolvono la controversia applicando il diritto (sostanziale); il mediatore non applica il diritto” (Diritto processuale civile, La risoluzione non giurisdizionale delle controversie, volume V, Giuffrè Editore, 2015).
ii) Altra soluzione potrebbe essere, invece, quella dell’obbligatorietà del tentativo di mediazione relativamente alle domande successive a quella introduttiva del giudizio, nei casi di intervento o chiamata di terzo, ovvero ogni qualvolta vi sia un ampliamento della componente soggettiva del processo. Questa soluzione, del resto, come già sopra esposto, si porrebbe in linea con quanto deciso dalla giurisprudenza di legittimità in merito all’interpretazione dell’art. 46 l.n. 3 del 3 maggio 1982 (legge sulle controversie agrarie).
Quindi, seguendo l’orientamento giurisprudenziale appena detto, quando si hanno intervento di terzo o chiamata in causa di terzo, dovrebbe ritenersi obbligatorio l’esperimento della mediazione.
Ad oggi, invece, la giurisprudenza più recente parrebbe orientata ad aderire all’interpretazione fondata sul criterio letterale, escludendo l’obbligo dell’estensione della mediazione obbligatoria a seguito della chiamata in causa di terzi (Tribunale di Palermo con ordinanze 27 febbraio 2016 e 6 maggio 2017) o, al più, a ravvisando la facoltà del giudice di disporre una mediazione delegata. 
Ritengo che, invece, sarebbe indispensabile la rinnovazione del tentativo ove al procedimento davanti al mediatore non abbia partecipato una delle parti del processo; soprattutto in determinate ipotesi, penso, ad esempio, al litisconsorte necessario. Tutte le volte, infatti, che le parti del giudizio sono diverse da quelle che hanno partecipato alla mediazione, essendo ogni parte portatrice d’interessi e bisogni diversi e non essendosi potuto analizzare o vagliare quelli del nuovo soggetto parte del giudizio, non si può – a priori – escludere che la presenza di questo soggetto terzo potrebbe cambiare gli equilibri e, quindi, rendere raggiungibile un accordo anche su una questione che è già stata oggetto di mediazione.
 
 
 
 
 

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Chi è l'autore
Avv. Micaela  Sedea Mediatore Avv. Micaela Sedea
Avvocato civilista da oltre 20 anni, mi occupo prevalentemente di diritto di famiglia, successioni, divisioni e condominio. Sono paziente, meticolosa e attenta nel mio lavoro. Dedico tempo ed attenzione a tutti gli aspetti di ogni procedura, anche a quelli in apparenza meno significativi. Credo che la mediazione permetta alle parti di avere maggior spazio e considerazione rispetto a quella che hanno in causa.





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